Vittorio Sgarbi

Apre il “Museo della Mafia”. Sarà altro: raccolta di testimonianze, di memorie, storia di una lunga sopraffazione contro lo Stato al posto dello
Stato. Più di ministri, presidenti, sindaci, i mafiosi hanno rappresentato l’autorità in Sicilia. Il male è diventato leggenda. Il danaro ha dato sostanza al potere.
Per qualche tempo, diventato Sindaco a Salemi, ho patito l’oltraggio di chi, in nome di una consolidata leggenda, mi temeva condizionabile, non considerando che la forza dell’immagine espressa, con me, da Oliviero Toscani, era l’unico e più grande potere di cui potevamo disporre, contro ogni mafia. E chi, realisticamente, non ci voleva ancorare a un passato, era comunque attratto morbosamente dalla mafia latitante; e per questo misteriosa, indefinibile, avvolgente.
Onnipotente perché non si conoscono i confini della sua azione. Da cui la frequente domanda: lei come si trova nel territorio dominato da Matteo Messina Denaro? Un uomo invisibile, il potere occulto, una letteratura più reale e invincibile della realtà. Con i riferimenti al passato, ai potenti mafiosi di Salemi, e al presente, oscuro ma pauroso, mi sono spesso scontrato, cercando di negare la leggenda in nome dell’evidenza, nella vita della città pacificata, “libera et immunis”.

Oggi la percezione di Salemi è mutata, ma gli eroi negativi alimentano le fantasie. Ed è così accaduto che una giovane artista italiana, da qualche anno attiva in America, modella e pittrice di David La
Chapelle, abbia elaborato invenzioni alla Andy Warhol, con una resistente ricerca pittorica, su alcune “facce di mafiosi”; e non per alimentare scandali, fare provocazioni, ma semplicemente registrare emozioni profonde, come in un procedimento psicoanalitico, individuare archetipi, mettendo in fila le facce tante volte viste sui giornali e molto meno, se non mai, viste nella realtà. Si è molto parlato del bacio di Andreotti e Riina a casa Salvo a Palermo. Ma la latitanza del celebre mafioso lo ha reso per lunghi anni invisibile, senza volto. E, quanto più invisibile tanto più potente, lo stesso è toccato a Provenzano. Poi, attraverso i pentiti, abbiamo visto, imprigionati, mafiosi anziani di cui avevamo improbabili identikit con sbiadite fotografie di epoche lontane. Sono riapparsi con altri volti che sono diventati subito icone. A partire da quelli degli stessi pentiti, come Buscetta, primo a svelarsi, e poi trasformati, sfigurati, con interventi di chirurgia plastica, o di nuovo nascosti, ripresi di spalle. Insomma negli ultimi venti anni abbiamo assistito a una vera e propria “epifania” del mafioso. I nomi hanno preso corpo, corpi grassi, sfatti, invecchiati. E abbiamo cominciato a riconoscere le “Facce di Mafiosi”.
Incuriositi dal mistero che essi esprimono. Volti avvolti nel silenzio, spesso inespressivi, senza parole. Le poche dette da Riina sono subito diventate memorabili come aforismi di un filosofo.

Provenzano ha pronunciato una frase, profetica, minacciosa: “Voi non sapete quello che state facendo”. Poi sono rientrati nel buio, lasciando soltanto la loro silenziosa icona.
Il potere mafioso che vive nascosto trova volto e viene esibito, senza paura, senza ipocrisia, come le teste mostruose dei carnefici di Santa Lucia nel dipinto di Caravaggio a Siracusa. Nessuno ha potuto rimproverare a Caravaggio il male che egli ha rappresentato esibendo in primo piano, come protagonisti, i bruti che stanno coprendo di terra il volto di Santa Lucia. Il male esiste come la disponibilità al crimine di molti uomini. I giornali ne sono pieni ogni giorno. Immagini e racconti di imprese di inaudita violenza. E, dunque, noi ci specchiamo nel male. Taluno per ritrarsene inorridito. Altri per compiacersene. “Nihil humanum a me alienum puto”.
La parola mafia entra nei vocabolari negli stessi anni dell’Unità d’Italia. Il Risorgimento e la mafia hanno la stessa fatidica data di origine e così ho pensato che, tra realtà e leggenda, con il territorio di Castelvetrano e il suo famoso latitante, eravamo il luogo giusto dove fare un museo della mafia: ed ecco che l’abbiamo preparato. La cosa singolare è che qualche anno prima l’idea era stata proposta al comune di Corleone, ma l’amministrazione ha temuto la parola e hanno preferito istituire un centro di documentazione per la lotta alla mafia, rinunciando al Museo della Mafia concepito dalla Fondazione Rosselli. L’Assessore alla Cultura all’ Agricoltura Peter Glidewell mi ha portato il progetto elaborato da Francesca Traclò e io, con qualche preoccupazione per la reazione dei cittadini, ho taciuto per tre mesi. Poi ho fatto filtrare un po’di notizie e la città ha risposto bene, nonostante qualche perplessità. La parola “museo” sancisce la fine di un’esperienza vissuta, tragica e terribile.
Come c’è il museo della Shoah ci può anche essere un museo della mafia, che non vuol dire un museo per la mafia, ma la rappresentazione di un fenomeno o di un periodo storico che è arrivato alla fine, come si vede in un museo archeologico. Abbiamo chiamato un artista siciliano, Cesare Inzerillo, il quale, ispirandosi alle catacombe dei Cappuccini di Palermo, con le mummie e i morti che si agitano come ne la Classe morta di Tadeusz Kantor, ha pensato dieci stazioni come dieci cabine entro cui si svolge un racconto con filmati relativi alla sanità mafiosa, all’energia eolica, al pizzo, al potere politico, ai simboli del potere, alla religione, all’abusivismo edilizio, al controllo dell’acqua, allo stragismo, al carcere, all’informazione, alla famiglia.
Così, come con il film “Gomorra”, si può sfruttare la mafia. E quando diventa un museo si ha anche la sensazione che sia fossile, al di là della certezza che la mafia abbia comunque potere.
La connessione tra America e Sicilia fa capire quanto è grande la Sicilia, perché la Sicilia si misura non con la Francia o con la Germania, ma con l’America. La Sicilia ha il marchio doc.
Cosa Nostra è una cosa grande: e se nasce un museo che la illustra a Las Vegas, io non capisco perché non debba nascere nel suo luogo d’origine, in Sicilia. Las Vegas è un grande parco dei divertimenti; in Sicilia abbiamo una dimensione più reale e più drammatica. Però è vero che agliosservatori di tutto il mondo è ormai evidente che le forze più trainanti della mafia sono oggi la ‘ndrangheta calabrese e la camorra, mentre la sua azione in Sicilia è veramente indebolita. Ed è quindi il momento per trasferirla in una dimensione diversa, analizzarla nella sua storia, nello spazio del racconto come è accaduto negli innumerevoli libri, saggi e film sulla mafia, in un mercato molto vivo dominato dall’indignazione come è accaduto con Gomorra. Perché un libro e un film sì e un museo no? Il problema è capire se un museo della mafia concepito in una dimensione creativa, oltre a essere utile a dare informazioni, sarà anche, come io spero, un’attrazione perché Salemi non continui a essere evitata, secondo un’antica quartina: “Unni viditi muntagni ri issu, chissa è Salemi: passaticci arrassu. Sunnu nimici di lu crucifissu e amici di lu satanasso”. E anche nella variante (aggiornata)
“amici di Giuda, Sgarbi e Caifasso”. Molti vengono a dieci chilometri da qui per vedere Segesta, per vedere Selinunte, e non toccano Salemi. Ma se a Salemi abbiamo, oltre a un bel centro storico e belle case, anche un museo unico da vedere, è probabile che si determini una curiosità decisiva. La lotta alla mafia è stata così dura in Sicilia, più che in Calabria e più che in Campania, perché sul piano emblematico la Sicilia era il luogo più forte nell’immaginazione. E più forte è stata la controffensiva dello Stato e molto importanti sono stati i risultati. Se continuo a tagliare la testa ai capi, posso immaginare che i capi non siano inesauribili e che le teste non si riproducano incessantemente. Per cui non saprei se oggi ci sia un capo della mafia, e mi pare di no, al di là della leggenda molto alimentata di Matteo Messina Denaro, intorno al quale è stata fatta terra bruciata, al punto che la sua influenza non c’è a Salemi, se si esclude la questione generale dell’energia eolica, che non è affare esclusivamente suo neppure in territorio di Trapani, come hanno mostrato le recenti inchieste. La conclusione sociologica nelle condizioni attuali è che in Sicilia ci sono certamente i mafiosi, ovvero ciò che sopravvive di bande criminali mafiose, ma non c’è più la mafia intesa come struttura organizzata nella connivenza fra affari, criminalità e politica (la “Cupola”, come fu successivamente chiamata). Non c’è oggi nessun politico – probabilmente per opportunismo, non perché non abbia pensato di poterlo fare ma perché correrebbe troppi rischi – disponibile a trattare con la mafia: non ce n’è più uno. E se togli la politica, togli l’elemento fondamentale. Altro elemento: i pentiti, in Sicilia più numerosi che in qualsiasi altra regione, hanno privato la mafia della difesa fondamentale che è l’omertà.
Quindi, niente politica, niente omertà: è chiaro che i mafiosi (attivi ma non organizzati), in ambiti circoscritti e senza tutela e coesione ambientale, con lo sdegno diffuso nella società civile, con la minaccia di continue indagini, di intercettazioni e inchieste, agiscono con molte e maggiori difficoltà. E sopravvivono costumi, comportamenti e mentalità mafiose, ma il potere criminale che domina la politica non c’è più. Sicuramente vi sono altre forme di mafia più sofisticate, impalpabili, insinuanti, persino legalizzate attraverso la burocrazia con la stretta maglia dei controlli antimafia delle certificazioni: quella finanziaria equella legata all’eolico, al fotovoltaico e alle altre forme di energia pulita che mobilitano connivenze con amministratori locali che si fanno corrompere e
che organizzano il consenso. Con il denaro, infatti, si acquisiscono complicità coperte da un’equivoca cultura ambientalista. L’ambientalismo fornisce l’alibi all’affarismo e la mafia si insinua senza apparire e senza bisogno di chiedere pizzi, anzi distribuendoli, forte di formidabili incentivi europei.
Così la politica senza volto rientra dall’Europa e si associa, anche inconsapevolmente, con la mafia. Io sono stato minacciato in maniera, diciamo così, pittoresca, con teste mozze di porci, cani morti e altre cose che fanno colore, che sono anche da interpretare come semplice violenza annunciata; ma nel costume, nei comportamenti, nelle relazioni personali e istituzionali in due anni di rapporti con politici e cittadini, io non ho mai avvertito la minima traccia di mafia. Anzi proprio perché ero curioso di individuarla, anche dopo le dichiarazioni di Buscetta, ho chiesto al Comandante dei carabinieri quanti mafiosi ci fossero a Salemi. Mi ha risposto con un documentato inventario che ne registra 27, di cui 20 in carcere, 3 novantenni, e 3-4 al limite e in assoluta astinenza che, scontata la pena, non attivi, sono in sonno, senza alcuna fonte di reddito e in evidente stato di indigenza, non contrastato da alcuna attività criminale.
Vi è dunque rappresentato un quadro di assoluta impotenza e inerzia mafiosa, senza alcun allarme sociale. Cosa vuol dire, dunque, e come si manifesta la mafia a Salemi? Realtà o sopravvissuta, pigramente, letteratura giornalistica? E dove sopravvissuta, se non nell’eolico, scandalosamente manifesto tra indifferenza e alibi culturali?
Se questo è lo stato delle cose nella vita quotidiana dei cittadini, mortificati da una diffamazione sistematica e aprioristica smentita dall’esperienza di chiunque sia venuto ad abitare o a visitare Salemi, la mafia non può essere soltanto la leggenda della mafia, deve essere un comportamento o un atteggiamento che a Salemi non c’è: non ce n’é proprio traccia e presumo che sia così anche a Mazara del Vallo, a Trapani, a Vita, a Marsala, a Castelvetrano e in molti altri paesi che hanno avuto un passato di esperienze mafiose. Ma se noi osserviamo il fenomeno ora, dopo più di un quarto di secolo di azione giudiziaria ispirata dal pentitismo, dalle rivelazioni di Buscetta e dalla intelligenza della realtà di Falcone e Borsellino – prima filosofi della mafia che magistrati – occorre ricordare che Giacomo Noventa scrisse che il fascismo non fu un errore contro la cultura, ma della cultura italiana. Lo stesso si può dire della mafia, magari sostituendo alla parola “cultura” la parola “politica”.
Non essendo sociologo, l’idea che esistano i mafiosi ma che non c’è più il potere occulto (e all’apparenza persino metafisico o ontologico) della mafia, l’ho derivata dall’intervista del procuratore antimafia Piero Grasso a “Le Figaro”. Grasso afferma che la mafia è stata decapitata, che non ha più un vertice e una mente che decide, e che ci sono fenomeni di criminalità che non fanno più riferimento a un potere centrale: ed ecco la mafia senza testa, come un paese senza governo cui manca la testa. E se tu continui a tagliare teste, Riina, Provenzano, Bagarella, Brusca, Santapaola, Lo Piccolo, tutti questi arrestati, non avrai più una strategia ma singole azioni mafiose, limitate, circoscritte, incapaci di governare il territorio se non episodicamente come accade in molti altri
luoghi e non solo del Meridione del Paese. Come il genio artistico, anche il genio criminale non è riproducibile in maniera meccanica. E quindi anche la mafia, come genio del male, lentamente diventa sterile. E oggi nessun politico è disposto a compromettersi perché non ne vede il vantaggio.
Dopo due anni capita che arrestino qualcuno, e questo si penta, ed è finita. Io non credo che anche un politico disponibile sia così stolto da compromettersi come invece poteva accadere venti o trenta anni fa. L’omertà lo garantiva, e una cosa è agire con l’appoggio del potere, una cosa è farlo, come fanno tutti i criminali: contro il potere.
Io sono stato il più agguerrito nemico della mafia senza volto (ma non senza testa) nel business dell’eolico, con interventi televisivi e sui giornali d’insolita e decisiva durezza. La mafia si è riciclata in queste grandi imprese industriali con i finanziamenti europei. Rispetto alla mafia tradizionale, questo nuovo livello multinazionale riguarda grandi imprenditori, grandi imprese anche straniere che trovano la complicità di quelli che si chiamano sviluppatori o semplificatori: in sostanza, collegamenti locali con persone che fanno avere i permessi per impiantare questi orrori. La mafia è qui, e lo dimostra il fatto che dopo gli anni della devastazione e della speculazione edilizia, hanno sistematicamente aggredito le parti più belle dell’incontaminato paesaggio siciliano. Il nostro Cesare Brandi, grande viaggiatore, scrive che la più bella strada del mondo è quella che va da Palermo a Mozia. Se uno la percorre oggi vede almeno 500 torri eoliche davanti a paesaggi, colline, golfi meravigliosi, senza alcun rispetto e criterio, con selvaggia cecità, a danno di tutti e non dei singoli comuni che le hanno volute.
Ma non è una mafia che riguarda tutti i cittadini, perché agisce su un assessore o un consigliere corruttibile che favorisce autorizzazioni a una società in cambio di denaro. Talvolta legalizzato come finanziamento istituzionale. Oliviero Toscani è convinto che la mafia tendenzialmente ci sia ancora e parla di mentalità mafiosa, e anche di una burocrazia molto forte – anche stabilita dall’antimafia – che scambia per mafia. Quando una cosa non funziona è la mafia. No, è l’inerzia, l’abulia, la mancanza di spirito d’impresa che bloccano i comuni. Se la mafia fosse stata attiva dopo due anni che lui e io siamo qui, avrebbe avuto l’occasione di sfruttarci. Nonostante Sgarbi e Toscani abbiano creato condizioni per potere trarre vantaggi non è capitato nulla. Per Toscani questo nulla è la mafia. Ma noi siamo la prova che la mafia non ha agito. Toscani quando parla di mafia parla di burocrazia, di amministrazione, di difficoltà di fare le cose. Ma non ha avuto segnali di mafia. Li ha denunciati per una sensazione di disagio operativo. Ha visto cittadini non rispondere come lui voleva, ma non era quella la mafia. La mafia era lì davanti a noi, in alto, nella finta energia pulita, inespressa, per spillare soldi all’Europa. E con questo vento e complici nuovi è tornata.