Polifonie profane di Susanna Gualazzini
Sii plurale. Come l’universo. Fernando Pessoa
Figlio della migliore pratica pubblicitaria della fine degli anni Novanta e, in un certo qual modo, apparentato alla Stage Photography degli anni Settanta, Paolo Vegas viaggia per gli infiniti mondi del quotidiano con la macchina fotografica chiusa e gli occhi spalancati: estranei all’estetica del foto-giornalismo, i suoi lavori sono saghe oniriche, teatri fantastici, luoghi in cui le cose improbabili si incontrano per fare corto circuito emotivo. Perché una e una sola cosa interessa a Paolo Vegas: recuperare nella memoria una emozione, smontarla e restituirla, duratura.
Ecco allora che attraverso un processo di costruzione, nel senso etimologico di con struère, Vegas manovra scenari, li spezza, li moltiplica: giunta immagini, schegge di vita, reperti di memoria, suggestioni friabili e ricompone tutto in una unità altra, in una polifonia di voci che conserva al suo cuore sempre e comunque un tessuto armonico. Nascono mise en scène che partecipano della realtà, ma anche del sogno e ancora di una qualche altra dimensione che non ha nome: una sorta di realtà aumentata, dove l’eccedenza non è dovuta alla tecnologia, ma allo sguardo dell’artista. Ogni fermo-immagine induce chi guarda a indovinare storie attorno a quanto vede, ma poi si sottrae, per farsi costruzione di un altrove a cui approdare attraverso un viaggio nelle identità.
Non a caso, fra i progetti degli ultimi anni, Cloning è forse quello che meglio aderisce alla stereofonia di pensiero che connota il lavoro di Vegas. Presente in mostra con alcuni esemplari, accanto alla serie de I quattro elementi, il progetto è costruito attorno al tema del doppio e della dislocazione del soggetto che, accompagnato da una serie di oggetti-totem dell’io, applicati e o stampati, si moltiplica in un vero e proprio calambour visivo.
Ecco allora che, spiace, ma occorre smentire Baudrillard: il “silenzio” che il filosofo considera una delle qualità più preziose della fotografia, non pertiene al lavoro di Vegas. Le sue fotografie parlano, e la loro è la lingua fratta dei primi fotogrammi di un film già iniziato e ancora sconosciuto. Frammento di dialoghi ancora prima che un accenno di trama si faccia evidente. E noi, orfani come siamo, cerchiamo parentele e fili narrativi, ma nel lavoro di Vegas non ci sono appigli: tutto, molto, è ellittico, interrotto, e alla fine ciò che rimane è l’immagine. E non è poco.
Profane polyphonies By Susanna Gualazzini
Be plural. Like the universe. Fernando Pessoa
Being the “son” of the best advertising practice of the end of the nineties, and to a certain extent a “relative” of Stage Photography of the seventies, Paolo Vegas travels the boundless worlds of everyday reality with his camera lens shut-off, but with his eyes wide open: totally unrelated to photo-journalism, his works are dream-like tales, fantastic theatrical scenes, places where improbable things come together in an emotional short-circuit. Indeed, Paolo Vegas’ one and only goal is to retrieve an emotional memory, break it down, and bring it back to life everlastingly.
Hence, resorting to a construction process – in the etymological sense of “con struere”– Vegas manipulates scenarios, decomposes them, multiplies them: he adds images, fragments of life, memory artefacts, and fragile suggestions, and recomposes them all, giving them a different harmony, in a polyphony of voices whose heart always and anyhow maintains its harmonic texture. This process gives way to mises en scène that are portrayed both in reality and dreams, and in another dimension as well, a dimension that has no name yet: a sort of augmented reality, in which the excess is not due to technology but to the glance of the artist himself. Every still images foster the spectators to guess the stories that accompany what they see, but then the image escapes in the construction of another somewhere, to reach through an identity journey.
Of all his recent projects, Cloning -unsurprisingly- may be the one that best endorses the stereophony of thoughts that characterizes Vegas’ work. The latter is present in the exhibition with some of its works – together with the series I Quattro Elementi – and it gravitates around the theme of the subject’s clone and dislocation which, together with a series of totem-objects of the self, applied and or printed, multiply and create a real visual pun.
It is therefore unfortunate, but we must to contradict Jean Baudrillard: “silence”, which the philosopher considers one of the most precious qualities of the art of photography, is not present in Vegas’ work. His photographs talk; their language is the broken language of the first photograms of a movie that has already started and which is not yet recognizable: fragments of dialogues can be heard but the plot is not yet clear. And the orphans that we are look for kinship and narrative threads, but in Vegas’ work there’s nothing to hold on to: everything, a lot, is elliptic, interrupted, and in the end the image is all there is. And that is no small thing.