Clonare il mondo
“Sono ampio, contengo moltitudini”, cantava Walt Whitman e parecchi decenni dopo sembrava rispondergli da par suo Fernando Pessoa: “Mi sento multiplo. Mi sono moltiplicato per sentirmi, per sentirmi ho dovuto sentire tutto”. Se nella poesia, nell’arte e nella letteratura nate prima del dominio consumistico la pluralità di nature e personalità che ciascuno di noi custodisce al proprio interno era un’indubbia anche se spesso problematica ricchezza, dagli anni sessanta del XX secolo questa molteplicità si è appiattita nella serializzazione di massa, nella clonazione cristallizzata. In arte il primo e massimo campione di questa anestetizzazione d’identità è stato Andy Warhol. Nessun artista del secolo scorso lo ha eguagliato nella capacità di rendere superficiali, glamour ed al tempo stesso magneticamente inquietanti, la vita, la morte, il consumismo, la voglia di apparire. “Come si può dire – egli amava affermare – che uno stile è migliore di un altro? Questo stile o quello, questa o quella immagine dell’uomo, non fa nessuna differenza”. Eppure, nonostante questa indifferenza dichiarata, Warhol ha saputo cogliere in profondità la nascita di una società seriale, massificata, narcisista, consumista fino al midollo. Ed egli era prima di tutto un inesorabile divoratore di immagini, era un serial killer dello sguardo, come dimostrano i suoi ormai mitici ritratti di star del cinema dai volti moltiplicati in serie e coloratissimi, clonazioni al tempo stesso gioiose ed inquietanti. L’elaborazione creativa di Warhol non si può capire senza conoscere la fase germinale ma decisiva degli anni cinquanta, col suo debutto nella commercial art e nel lavoro di illustrazione per riviste prestigiose oltre che di grafico pubblicitario. Proprio Warhol e le successive strategie della comunicazione pubblicitaria sono fondamentali per comprendere il lavoro di Paolo Vegas, che è fin dal primissimo impatto indubbiamente attraente, seducente, patinato, eppur mai pigramente fermo e depositato sulla superficie delle cose. In tal senso, come si vede con grande completezza nella mostra alla Galleria Contini di Cortina d’Ampezzo che raccoglie serie diverse di opere realizzate negli ultimi dieci anni, la sua invenzione più nota e convincente è la clonazione dei soggetti fotografici, con un meticoloso processo esecutivo che recentemente si è andato ulteriormente perfezionando, memore anche delle spettacolari opere post-Pop, visionarie e neobarocche di David LaChapelle. Non a caso Vegas dà vita ai propri lavori utilizzando il format di un set pubblicitario, scegliendo il luogo, il cast, lo stile e la sceneggiatura per ambientare e raccontare una storia sospesa fra realtà e dimensione onirica, nel costante trionfo dell’eccesso. Fondamentale è poi il lavoro di post-produzione nel quale Vegas monta, come un linguaggio quasi cinematografico, la sua iperbolica narrazione visiva, destinata a produrre stupore e meraviglia. Se oggi è diventato sempre più difficile, ma non impossibile, inventare nuove immagini radicate nell’interiorità contemporanea, si sta facendo strada con sempre maggior forza, come dimostra lo stesso Vegas, l’uso del montaggio per associazioni con l’individuazione di legami imprevisti, inediti, che riallacciano o tessono fili da cui si creano contesti inediti. E nel caso del nostro artista sarebbe limitativo parlare di pure e semplici fotografie perché in realtà questi lavori sono collage su stampa lambda che sorprendentemente inglobano in sé oggetti reali, concepiti come materializzazioni di immagini presenti nella singola opera (il nastro rosso in “Cloning Cars”, la borsetta in “Cloning in the Soybean Meal” o il foulard in “Cloning Anna with Foulard” e si potrebbe continuare a lungo) e spesso legati ai gusti, alle passioni, ai ricordi ed alle esperienze delle protagoniste messe in scena e clonate in quelle che lo stesso Vegas chiama BioCloning. Così, in una riflessione concettuale sul rapporto tra realtà ed immagine, fra realtà ed illusione, l’oggetto, tirannico dominatore della nostra vita consumistica e sempre più artificiale, diventa invece una sorta di alter ego del soggetto ritratto e in qualche modo viene purificato dal suo esclusivo ruolo “usa e getta”. Su un versante critico, che sotto sotto non manca mai nelle opere del nostro artista, si potrebbe però dire che ormai noi siamo gli oggetti che usiamo e che desideriamo. Non a caso, per sottolineare l’osmosi sempre più stretta fra persone e cose, la mostra si intitola “stories of people and things”.
In ogni caso, Vegas si dimostra capace di vedere le cose ordinarie in modo straordinario, sull’onda dell’eredità surrealista, per trasmettere anche a noi questa rinnovata apertura mentale: basta vedere, solo per fare un esempio, la lieve e misteriosa apparizione angelica o ectoplasmatica in “Cloning Fallen Angel”. Così, in qualche modo il nostro artista potrebbe far sue queste riflessioni di Jarosław Suchan: “Le opere d’arte possono agire come una sorta di crepa nel monolite dell’immagine che ci viene fornita come unica immagine possibile della nostra epoca. Un’opera d’arte può disturbare il modo consueto di vedere o pensare il mondo. Penso che il ruolo principale dell’arte sia cambiare la nostra mente, il modo in cui pensiamo e vediamo il mondo. Questo può essere l’inizio di un possibile cambiamento. C’è un enorme deficit di immaginazione, il nostro modo di pensare è oggi molto convenzionale. Ciò di cui abbiamo disperatamente bisogno adesso è il coraggio di andare oltre, di oltrepassare i limiti”.
Vegas riesce a visualizzare un mondo in perenne movimento, una sorta di frenetica coreografia della vita contemporanea, in cui sta facendo passi da gigante la ricerca scientifica riguardante la clonazione, con molti aspetti inquietanti. E poi l’artista rende possibile, con un’ironia divertita e divertente che ci strizza l’occhio, il sogno segreto di tutti quelli che vorrebbero sdoppiarsi o moltiplicarsi per stare dietro ai sempre più innumerevoli impegni che scandiscono tirannicamente la nostra vita quotidiana. In questo spettacolo travolgente sono protagoniste indiscusse e quanto mai seducenti giovani donne o pin-up spesso vestite in abiti succinti o seminude secondo i canoni della pubblicità che vuole suscitare l’eruzione del desiderio nel pubblico maschile. Ma l’accentuazione quasi caricaturale e il parossismo di pose ed atteggiamenti messi in campo da Vegas in realtà vogliono farci riflettere proprio sulla mercificazione del corpo femminile e dell’erotismo che ci bombarda quotidianamente. E così Vegas potrebbe ben condividere queste riflessioni di Maurizio Cattelan, il quale, pur essendosi giovato di strategie pubblicitarie e comunicative quanto mai alla moda, ha capito che “viviamo nell’impero del marketing, dello spettacolo e della seduzione, così uno dei ruoli di artisti e critici è quello di decostruire queste strategie, resistere alla loro logica, usarle e/o trovare nuovi metodi di attivismo contro di loro”. Nelle opere realizzate da Vegas negli ultimi due anni emerge con rinnovato vigore la sua vocazione visionaria ed immaginifica, rafforzata da effetti cromatici quasi pittorici, come si vede in “Marilyn in Korea 1954”, “Venezia”, Recycled Plastic in Yellow”, “Blue Harmony”, “Ichthys”, solo per citare alcuni esempi. Infine, non vanno trascurati i dialoghi ideali e gli omaggi dedicati da Vegas a geni immortali come Michelangelo, Van Gogh, Hopper: il nostro artista sa bene che, come scriveva Arshile Gorky, “nell’arte la tradizione è la grandiosa danza corale della bellezza e del pathos, in cui molte diverse epoche si tengono per mano unite in uno sforzo comune, e al tempo stesso ognuna offre il proprio contributo peculiare e individuale all’evento collettivo; ognuna di loro perde qualsiasi significato se il cerchio delle mani viene spezzato. Per questo ritengo che la tradizione, ossia il legame delle epoche passate con la presente, sia così importante per l’arte; il solista può emergere solo dopo aver preso parte alla danza corale”.
Gabriele Simongini